Chi (vogliono che) siamo?
Siamo tutti «gruppi di persone o cose dello stesso tipo». Clasters. Esseri studiati persino nell’intimità. Siamo liceali, individui «con poche responsabilità condizionati solo dal bisogno di appartenere ad un gruppo e confrontarsi con esso», giovani e spensierati studenti della classe media, delfini, definiti con poetica espressione «gioventù degli anni dorati», e in quanto tali disponiamo di denaro, cultura ed energie per mettere a frutto sia l’una che l’altra, un gruppo curioso, aperto al nuovo, con la voglia di capire e divertirsi. Siamo, ahimé, anche spettatori. Giovani maschi dei piccoli centri dove la vita è soprattutto lavoro e gli scarsi strumenti culturali che abbiamo ci fanno attori passivi della trasformazione sociale e «facili prede dei più effimeri miti consumistici». E siamo pure arrivati, ebbene si, abbiamo vinto: lavoriamo, viaggiamo, leggiamo, ci teniamo informati, partecipiamo alla vita in maniera piena e attiva. Quante cose siamo noi umani? Tante, tantissime, ce ne incollano addosso sempre di nuove: impegnati, organizzatori, esecutori, colleghe, commesse, raffinate, massaie, avventati, accorti, appartate, siamo tutto questo e altro ancora. La psicografia enuncia i suoi termini, li inserisce in un dizionario, e come si sa, un dizionario non mente. È lessico dunque, modo d’esprimersi, linguaggio d’un ambiente e di chi lo parla nel suo farsi, un contributo a costruire il senso del mondo. Piccolo bestiario umano. I dizionari di comunicazione d’impresa rappresentano un modo altro di costruire il senso del mondo. Si scopre, attraverso l’advertising (esposizione alle tecniche pubblicitarie), che siamo usati in testing che misurano i mutamenti delle nostre aspettative e dei nostri comportamenti d’acquisto (nient’altro che variabili di comunicazione), o persino che veniamo monitorati nei nostri acquisti non programmati. Sanno anche quello che non sappiamo neppure noi di sapere quando facciamo un cazzo d’acquisto d’impulso. Dico, vogliono sapere qual è lo stimolo che abbiamo percepito nell’istante in cui lo abbiamo fatto. In questa tipologia di scrittura il mondo è ad hoc survey, mirato a un particolare obiettivo e quella che credevamo la nostra realtà dei fatti, accidental sampling, un campione casuale. È questo il problema, come ogni buon dizionario, anch’esso è volto a produrre un linguaggio che esce fuori dal mondo scritto per entrare nella realtà, contribuendo a ri-scriverla. Il mondo scritto, come ricorda Italo Calvino «è un mondo fatto di parole, usate secondo le tecniche e le strategie proprie del linguaggio, secondo gli speciali sistemi in cui si organizzano i significati e le relazioni tra i significati». È ora di iniziare a chiedersi che senso dell’approccio all’esperienza trasmette questo tipo di mondo scritto, e tanto per ritornare sul grande scrittore italiano e fine osservatore della realtà, bisogna ricordarsi che « (…) il mondo esterno è sempre là e non dipende dalle parole, anzi è in qualche modo irriducibile alle parole, e non c’è linguaggio, non c’è scrittura che possano esaurirlo». La vita va al di là di una clasters analysis, dell’individuazione di gruppi omogenei e di criteri prefissati. L’articolo 3 del codice di etica professionale delle relazioni pubbliche, visto il contesto in cui è inserito, ricorda un po’ bizzarramente, che si è tenuti a «rispettare i principi della dichiarazione universale dei diritti umani». Come è possibile quando si producono modelli di mondi paradossalmente orientati ad assoggettare individui all’acquisto?
Riferimenti:
Centro Studi Comunicazione Cogno e Associati, D.E.CO.DI, Dizionario Enciclopedico della Comunicazione d’Impresa, http://www.cognoassociati.it/;
Tullio De Mauro, Dizionario italiano, Paravia Bruno Mondadori Editore, 2000;
Italo Calvino, Mondo scritto e mondo non scritto, Mondadori, 2002;
iMago
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