21 aprile 2005

Tramonto democristiano (di Curzio Maltese)


BERLUSCONI ha scelto di morire democristiano. Pur di tirare a campare ancora per qualche mese, abbrancato alla poltrona, all'ultima e unica promessa mantenuta agli italiani: "Non vi libererete facilmente di me". Perché già la penultima, "non mi dimetterò mai", è andata a farsi benedire. L'uomo che solo lunedì non si sarebbe "mai piegato ai riti politicanti", nello spazio d'un mattino o due accetta di naufragare nel più grottesco dei voltafaccia, nel puro teatrino della politica, in antiche paludi che si chiamano dimissioni&rimpasto, rosa dei nomi, totoministri, verifica, orrido governo bis o balneare.

Stavolta è suo il ruggito del coniglio. Berlusconi e non Follini appare come il vecchio democristiano di ritorno. Più ancora che la vendetta della prima repubblica sulla seconda, questa è la comica finale del berlusconismo. Solo l'altro giorno il premier ha regalato ai suoi falchi l'ultimo gesto titanico, le dimissioni negate con tanto di minacce agli alleati, l'ennesimo salto nel cerchio di fuoco destinato all'applauso della corte dei vari Ferrara e Fede. Appena il tempo per il cambio scena e d'abito e Berlusconi da oggi è già lì a distribuire sorrisi, pacche, barzellette e ministeri ai nemici mortali dell'Udc. E allora a che cosa è servita la recita incendiaria? Soltanto a ingigantire la vittoria e la figura del nemico interno, Follini, e a ridurre a nani politici gli alleati più fedeli, Bossi e anche Fini.

La verità è che l'ultimo Berlusconi sbaglia tutte le mosse, almeno quanto le azzeccava il primo. È un contrappasso totale, quotidiano. La puntata di Ballarò del dopo elezioni era l'esatto contrappasso della discesa in campo del '93.

Il brontolio dimissionario con cui ieri al Senato Berlusconi ha stracciato il "contratto con gli italiani" è la risposta del tempo al radioso comizio d'insediamento nell'estate del 2001. Allora si celebrava l'inizio di un ipotetico ventennio ("governeremo per molte legislature"), ora se va bene si tratta d'arrivare al panettone. Da neothatcheriano a vecchio doroteo in soli 1400 giorni. Fra le due immagini passa il clamoroso fallimento del berlusconismo. Non solo nei risultati concreti, deludenti oltre l'immaginabile, con il peggior stallo economico dal dopoguerra, il declino incombente, l'impoverimento dei ceti medi e le grandi opere ridotte a una villona padronale e semiabusiva in Sardegna. Ancora più definitivo è il fallimento ideologico, culturale, nel linguaggio e nella rappresentazione del Paese. L'idea arrogante di poter guidare la politica e la nazione come un'azienda, l'altra di riuscire a manipolare all'infinito con le televisioni un'opinione pubblica infantile. Alla prima seria rivolta di un alleato o due, i più piccoli per giunta, il mantello d'invulnerabilità del berlusconismo è scivolato a terra e il capo si ritrova ora a inseguire un compromesso qualsiasi, arrangiandosi con le povere risorse dell'eterno trasformismo. Il marasma finale è evidente perfino nel linguaggio, nelle parole e nei gesti del Berlusconi dimissionario. Lo show di 11 minuti durante il quale il premier ha alternato scuse di fatto a minacce virtuali, la tardiva ammissione di sconfitta e la sicumera delle future immancabili vittorie, una concreta retromarcia di fronte alle divisioni nella maggioranza e la chimerica fuga in avanti verso il partito unico della destra, l'ossequio formale al Quirinale e il disprezzo per la Costituzione. Un guazzabuglio da stato confusionale che le fide Rai e Mediaset, con pietoso servilismo, si sono ben guardate dal mandare in diretta. Lo show s'è chiuso poi nel paradosso d'una maggioranza che applaude con entusiasmo le dimissioni del suo premier mentre l'opposizione medita in silenzio. Su queste basi di partenza c'è da domandarsi a che cosa serva prolungare l'agonia d'un anno con un Berlusconi bis. Tutto lascia prevedere un anno orribile, gravido di vendette, dispetti, regolamenti di conti. Fallito l'ultimo, Berlusconi cercherà altri colpi di scena. Com'è nella sua natura, tornerà a fare la voce del padrone appena sarà caduta in prescrizione anche la minaccia del voto anticipato. I centristi possono rispondere con altre crisi e crisette. Già ieri hanno fatto una piccola prova generale facendo mancare la maggioranza a un decreto governativo. Una specie di Vietnam parlamentare attende un'Italia già stremata e impaurita dalla crisi. Le elezioni anticipate rappresentavano almeno una soluzione decente, forse l'ultimo dei tanti treni persi dal paese nei dieci anni buttati per inseguire uno strano sogno.